giovedì 21 marzo 2019

Non posso essere tutto.

Scegliere è indispensabile, c'è poco da fare.
Nonostante io lo sappia, e anche bene, ancora riesco a rimanerci male quando mi rendo conto di non poter essere tutto ciò che vorrei. O per lo meno, non nell'immediato.
Ho dovuto scegliere tra una carriera da universitaria in ritardo e scrivere.
Ho scelto la seconda, e ne sono felice.
A volte mi perdo di vista, perdo il senso, perdo le cose.
Pulisco, faccio la spesa, organizzo, preparo, cucino.
Voglio la perfezione, voglio che tutto sia in ordine, voglio dimostrare di non perdere niente.
E perdo me.
Allora mi ritrovo, un po' a tentoni, un po' a stento, un po' annoiata perché una mente occupata è una mente che non può riflettere, pensare, domandarsi.
E alla fine non so più bene come si fa.
Mi piace sapere che sto cambiando. Oggi affronto le cose meglio di ieri, oggi va bene.
Per lo più cerco di non pensare al fatto che il mio romanzo, dopo tanta fatica, sia tra le mani di gente che lo sta leggendo, spulciando, valutando. A volte, quando ne parlo, mi blocco perché mi accorgo di essere uscita dai binari. Lui ce la farà, se smetto di crederci, se accetto anche solo la possibilità che ciò non avvenga, ho già perso.
Io odio perdere.
Sto scrivendo un libro complicato, che mi costringe a rimettere in discussione un sacco di credenze, un sacco di convinzioni, un sacco di cose.
Forse non lo finirò nei tempi che mi ero prefissata, ma ho deciso che va bene così.
Non c'è fretta, non deve esserci.
Lui è nel mondo, adesso. L'altro ci arriverà, al mondo, quando sarà maturo per farlo.
Sono una scrittrice, cazzo.
Ogni tanto me lo devo ripetere, perché sono tre parole facili a disperdersi nel vento.
Cazzo no, invece. Cazzo non di disperde mai, per fortuna.
Devo imparare a parlare di me e di quello che faccio.
Ancora non so rispondere alle domande che mi vengono poste.
Che genere è il tuo romanzo?, per esempio, mi mette in crisi.
E di cosa parla?, pure.
Dai, dimmi un po' la trama.
Domani affronterò le cose meglio di oggi.
Saperlo mi rende forte.

Questo post è stato originariamente scritto su Swanza blog, da Ade. E' possibile copiarlo parzialmente o interamente e modificarlo, basta che il post originale venga linkato

lunedì 4 marzo 2019

Leggo molto, scrivo poco.

Ieri sera mi interrogavo, ad alta voce, sul significato dei rapporti sociali.
Io, che ne ho pochi, spesso mi domando: e se non ne avessi affatto? Soffrirei? O la mia vita scorrerebbe ugualmente, senza alcun cambiamento?
Io le persone le perdo per strada.
A volte perché mi deludono e smettono di interessarmi.
A volte perché non lascio loro il tempo di deludermi, smettono di interessarmi prima.
A volte perché, pur interessandomi, le lascio andare.
Io non chiamo le mie amiche, a meno che non mi facciano del terrorismo psicologico.
Però, se mi chiamano loro, mi fa piacere sentirle.
E di cosa parliamo? Di cosa si parla, con gli altri?
Ci si racconta, un po'.
Come va il lavoro, il libro, a casa, la bimba, il cane, i gatti, i fratelli.
Parlo io che poi parli tu, parli tu che poi parlo io.
Finché non c'è più nulla da dire, la magia scompare, siamo solo respiro dentro un microfono.
Ma tu mi conosci? Ed io? Io conosco te? Ci capiamo davvero?
Possiamo davvero capire un'altra persona?
Ci interessa davvero capire un'altra persona?
Facciamo una pizza da me, da te, un film, magari, una birra fuori.
Perché?
Che importanza ha circondarsi di altre persone? Perché vado a casa dei miei vicini a mangiare con loro? Sono miei amici? Ma poi, cos'è un amico? Una persona che ti ascolta quando hai bisogno di essere ascoltato? E poi tu, in cambio, ascolti lui? Chi è questa gente? Chi sono queste persone? Chi sono io?
A volte io non parlo perché so che, comunque, non verrò capita.
Ieri sera lui mi ha chiesto: ma ha davvero importanza essere capiti? È essenziale ai fini di stabilire la qualità di un rapporto sociale? Perché poi, in fondo, a noi basta avere qualcuno con cui fare conversazione, conoscere il suo punto di vista, sfogarci.
Ha ragione? È così?
Allora, mi dico, sono io che pretendo, ho sempre preteso troppo.
Scivolare, scivolare, scivolare su ogni cosa.
Non ho ancora imparato a farlo.
Io ho bisogno di sapere, di torturarmi il cervello con mille domande, di supporre, ipotizzare, sperimentare, teorizzare. E voglio essere capita.
Ho letto:
Pennac, Mio Fratello.
Mastrocola, Leone.
De Vigan, Le fedeltà invisibili.
Canepa, L'animale femmina.
Todisco, Jimmy l'americano.
Ferrante, L'amica geniale.
Medina Reyes, C'era una volta l'amore ma ho dovuto ammazzarlo. (NO)
Smith, Denti bianchi.
Gaarder, Il mondo di Sofia.
Caboni, Il giardino dei fiori segreti. (NO, ero curiosa di sapere perché ha venduto tanto e non sono riuscita a spiegarmelo.)
Un paio di saggi da cui ho ricavato cose interessanti (tipo il digiuno intermittente e il fatto che un gatto ha più probabilità di salvarsi se, cadendo da un palazzo, cade dal settimo piano in su).
Ho iniziato a studiare portoghese perché a fine Aprile vado a Lisbona.
Eu bebo uma cerveja.
È tutto quello che so dire, per ora. Ma credo sia importante. La base, proprio.

-Dovevo fare la filosofa.
-Ma tu sei filosofa, è solo che nessuno ti paga per esserlo.

Cià.

Ps
Se tra voi c'è qualcuno esperto/appassionato/molto informato su Islam e Corano che abbia voglia di fare due chiacchiere con la sottoscritta, mi scriva una mail. L'indirizzo è qui a destra, not so difficult to find it.

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