Da quando ho deciso di smetterla di aggiornare il curriculum e dedicarmi alla scrittura, mi è capitato spesso che mi domandassero: ma perché non provi a scrivere per qualche sito?
La mia risposta, in quelle occasioni, è stata sempre la stessa: perché non è roba mia, io scrivo romanzi.
Ed è la verità.
Recensire, parlare di attualità, non sono attività che mi ritengo in grado di svolgere, perché, in me, l'atto di scrivere, deve nascere in modo spontaneo, non può essere in alcun modo spinto da qualcosa di esterno.
Per farla breve, se qualcuno mi dicesse: orbene, scrivi una bella recensione sul tal libro che hai letto. La mia recensione farebbe più o meno così: c'è questo tizio che fa questa cosa e poi, niente, finisce in merda. Non ci troverete arzigogolate riflessioni sul senso dell'opera o roba simile, a meno che non mi siano venute alla testa così, senza domandarlo.
E niente, manco nello scrivere so mentire o artificiare qualcosa.
Il punto è che, quando leggo una recensione (di un libro, di un luogo, di un film…) colma di pensieri, sensazioni, metafore, allusioni, io mi annoio A MORTE.
Cioè, mi viene proprio da pensare: oh ma arriva al punto, no? Cazzomenefrega di sapere cosa ha suscitato in te la descrizione del colore del cielo nel primo paragrafo del capitolo quattro?
Niente, proprio.
E sapete perché?
Perché sono fermamente convinta che uno certe cose le prova e poi non le riesce a far provare ad altri solo perché descrive ciò che ha provato.
L'arte è soggettiva. Tutto è soggettivo.
Ad ogni modo, non so perché sono arrivata a parlare di questo.
Stamattina mi sono svegliata e ho letto delle elezioni in Emilia Romagna.
Ho pensato: evviva. E poi: wow. E poi: ma sticazzi, cosa cambia?
Ho pensato alla pila di Internazionale (circa sessanta) che ho sul comodino e che leggo, sporadicamente, senza riuscire a finirne uno, perché non sopporto più di apprendere, da notizie sempre diverse, quanto l'umanità faccia schifo. L'ho capito, ormai, che senso ha?
Ho pensato al fatto che, alla fine, in un modo o nell'altro, abbiamo sempre fatto un po' schifo.
Non ho ricordi di periodi storici in cui, anche solo per un attimo, abbiamo smesso di fare schifo.
Abbiamo ucciso Socrate, Gesù, milioni di ebrei e di nativi americani.
Abbiamo ucciso chiunque fosse diverso, chiunque ci facesse comodo uccidere, chiunque non ci fosse in qualche modo utile.
Abbiamo reso schiave persone uguali a noi, sopraffatto i più deboli, riversato la nostra merda dove non poteva nuocerci, e pazienza se in tal modo avrebbe danneggiato qualcun altro, abbiamo sfruttato qualsiasi creatura per i nostri scopi, spesso non lodevoli, abbiamo umiliato, mortificato, sacrificato in nome di questo o quello, abbiamo inquinato la terra, scatenato reazioni a catena, costruito case dove non avremmo dovuto, e lo sapevamo, ma ci faceva comodo così, abbiamo trafficato, spiato, sentenziato, lanciato bombe, creato confini in luoghi che non ci appartenevano affatto, messo becco in cose che non ci riguardavano, finto di essere migliori, arrogandoci diritti che non ci spettavano, prendendo decisioni che non ci competevano, abbiamo rubato a chi necessitava di ciò che rubavamo per vivere, per ricostruire, abbiamo venduto a chi, lo sapevamo, avrebbe usato i nostri beni per nuocere, abbiamo puntato dita, ci siamo inventati colpe e nemici, abbiamo fatto guerre, seminando sangue e discordia.
In tre parole: abbiamo fatto schifo.
E continuiamo a farlo.
Ma che, davvero, posso essere felice perché le elezioni in Emilia Romagna sono andate come speravo? E che cosa cambia, questo?
Nulla.
Perché, alla fine, il male è dentro di noi. C'è sempre stato e sempre ci sarà.
Umanità, citando Treccani, significa, tra le altre cose: sentimento di solidarietà umana, di comprensione e di indulgenza verso gli altri uomini.
Trovo questa parolà di una disonestà disarmante.
Umanità, dal canto mio, dovrebbe significare qualcosa come: matrioska di sentimenti contrastanti che non siamo sempre in grado di controllare e/o direzionare.
Rabbia, invidia, odio, vendetta, avidità, egoismo, volontà di sopraffazione giocano a pari passo con amore, gioia, pietà, umiltà.
Si mischiano, si confondono, si spintonano.
C'è chi è più bravo a controllarne alcuni, un po' meno altri, e viceversa.
C'è chi non li controlla affatto, chi li controlla tutti.
Questa nostra capacità di dominare i sentimenti che ci appartengono dovrebbe, quindi, dividerci in buoni e cattivi, no?
Io controllo l'odio, la rabbia, l'invidia, l'avidità e per questo sono buono.
Io controllo l'amore, la pietà e l'umiltà e sono cattivo.
Ma è davvero così?
Non dipende, forse, anche dal punto di vista di chi ci osserva?
E non è vero, poi, che siamo perfettamente in grado di provare amore e odio allo stesso tempo?
Magari amiamo i bambini, ma odiamo i cani.
Forse amiamo Israele, ma odiamo i palestinesi.
E quindi, siamo buoni o cattivi?
Io non lo so.
Ed è per questo che non scrivo di attualità.
I miei scritti sarebbero aporetici, come questo.
So di non sapere.
Socrate direbbe di me: allora sai più degli altri.
Io dico: non lo so.
La vita è dura, come sempre.
Io la vivo piena di rabbia, il più delle volte, anche se so che mi fa male.
Non la controllo, questa è la ragione.
Se la controllassi, ne farei volentieri a meno.
Ogni giorno è una sfida, una lotta.
Non so chi mi stia mettendo alla prova né perché, ma accolgo tutto e me ne faccio una ragione, prima o poi.
Di sicuro ci rifletto su.
C'è una persona a cui tengo che è gravemente malata. L'ho presa male, all'inizio. Ora provo a tenerle la mano e a combattere con lei.
C'è la quotidianità che mi sfianca, anche se so che sto andando nella direzione giusta.
I giudizi esterni arrivano e mi colpiscono come frecce avvelenate, non ho ancora imparato a gestirli.
Non è facile, quando giungono da persone da cui invece vorresti affetto e, magari, stima.
C'è il mio secondo libro tra le mani del comitato di lettura del Calvino, e l'ansia che ne consegue.
Ci sono quelle diciassette pagine che mi aspettano.
Ci sono i milioni di libri che devo ancora leggere.
Ci sono io.
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