lunedì 20 maggio 2019

Coscienza (politica)

Ieri sera ero a letto che leggevo i programmi elettorali dei vari partiti candidati alle europee e mi sono resa conto - non che non lo sapessi già, per la verità - che il mio rapporto con la politica fa acqua da tutte le parti.
Il primo contatto tra noi - lo ricordo bene - è avvenuto all'incirca vent'anni fa, quando frequentavo la scuola media. La professoressa di italiano e storia ci confidò subito di avere un gatto molto bello e di averlo chiamato Ernesto Costanzo Che Guevara. Nome lungo, per un gatto. Pensai. E pure abbastanza bruttino. Ma alcune mie compagne undicenni, meglio informate di me, in men che non si dica, iniziarono a venire a scuola con queste magliette rosse sulle quali era stampata una faccia nera. L'avevo già vista, sì. Alle bancarelle, in fiera, ne vendevano assai, di quelle magliette. Carine.
Certo, io la scuola me l'ero scelta proprio male male, eh.
Come credo per molti bambini a quell'età, la mia unica preoccupazione fu quella di non separarmi dal mio amichetto del cuore… che, peraltro, mi abbandonò a me stessa neanche a metà del primo anno, cambiando scuola.
I miei compagni di classe erano quasi tutti figli di medici, avvocati, professori e la differenza tra loro e me era palpabile, si percepiva alla prima occhiata.
I professori, poi, la percepivano BENISSIMO.
Quando alzavo la mano - quelle rare volte in cui la mia timidezza estrema me lo concedeva - la professoressa dal gatto importante mi lanciava uno sguardo disinteressato e passava oltre, allargando il sorriso quando a parlare erano le sue pupille dalle maglie rosso fuoco.
Imparai che a nessuno importava di ciò che avevo da dire, e passai oltre anch'io.
A casa mia nessuno leggeva, nessuno parlava con me di ciò che succedeva nel mondo, nessuno si domandava cosa mi passasse per la testa.
O forse sì, chissà. Comunque, a me, non l'hanno chiesto mai.
La mia adolescenza è un buco nero in cui rare volte ho voglia di infilare la testa per vedere se, magari, riesco a trovare qualcosa.
Sono sempre stata un'avida lettrice di romanzi, brava a scrivere, meno a parlare.
La scuola l'ho lasciata a quindici anni perché, anche lì, avevo bisogno di passare oltre.
Lavorare, rendermi indipendente, fuggire dalla periferia, sopravvivere.
Ho ripescato un vecchio diario e ci ho trovato dentro un mio scritto su Dio che terminava con questa frase: forse Berlusconi si è comprato pure Dio.
Ero arrabbiata, allora, e quel sentimento permeava tutto ciò che facevo, ma non ricordo quei pensieri, quelle associazioni mentali. Probabilmente quella frase era nata da un sentito dire, e niente più.
C'è stato un periodo in cui bisognava proprio odiare Berlusconi e - forse, chissà - lo facevo anch'io.
Lasciai un fidanzatino, all'epoca, perché scoprii che aveva appesa in camera la bandiera nazista.
Non sapevo niente, niente.
Però, evidentemente, qualche certezza dovevo averla.
Il mio mondo faceva schifo e non vedevo vie d'uscita percorribili.
Credo che lì sia nata in me la convinzione che, se tutto va male, deve essere colpa della politica.
Tanto sono tutti uguali, mi aveva detto qualcuno.
A votare non ci sono andata mai.
A scuola ci sono tornata a venticinque anni.
Ho frequentato dei corsi serali comunali che mi hanno preparata per dare gli esami da privatista.
Due anni in uno, per risparmiare tempo.
Se fossi stata brava, in tre anni mi sarei diplomata.
Sono stata brava.
Il quinto anno sono passata a una scuola serale statale, per diplomarmi da interna.
Ci trattavano come delle merde, per lo più.
Eravamo scarti della società, poveracci, gente che non era stata in grado di finire la scuola quando avrebbe dovuto, capre ignoranti.
Alcuni professori erano palesemente inadeguati all'insegnamento, gente che veniva a scuola a scaldare la sedia tantochissenefregadiquellilì.
Il mio professore di italiano e storia era - ed è, presumibilmente - un nazifascista.
Tra le altre cose, gli piaceva definire il processo di Norimberga un processo spettacolarizzato.
Mi sono diplomata con 93/100.
Sarebbero stati 100/100 se non avessi perso un anno di crediti, facendo due anni in uno.
Eppure sono uscita da lì che del mondo di oggi sapevo ancora poco e niente.
E ciò che sapevo non arrivava dalla scuola, ma dal fatto che avessi iniziato a informarmi da sola.
Ciò che mi è rimasto, della scuola, non è legato alla miriade di nozioni che sono stata obbligata a imparare a memoria, bensì a ciò che è stato affrontare la scuola, per me.
Ed è un po' triste, fa anche un po' incazzare, se ci penso.
Eppure è così: la scuola mi ha insegnato che se ho qualcosa da dire, è bene che io la dica, anche se mi sembra che nessuno mi stia a sentire, anche se dirla mi metterà contro un sacco di persone. La scuola mi ha insegnato a riconoscere la mia forza, la forza delle mie idee, la forza delle mie parole. La scuola mi ha dato sicurezza e fiducia in me stessa. E non perché, come dovrebbe essere, sono stata guidata da persone che mi hanno aiutata a far nascere in me queste consapevolezze, ma perché ho DOVUTO imparare queste cose, altrimenti nessuno avrebbe parlato per me, nessuno mi avrebbe aiutata ad uscire da lì con un diploma in mano. Ed io volevo quello, il diploma, la prova - per me stessa - che non ero davvero uno scarto della società, un'inetta.
Forse è stato quello il momento in cui la politica è entrata, almeno un po', nella mia vita.
Poi è arrivato Salvini.
Per mesi ho provato disgusto, ma non l'ho detto mai.
Io sono apolitica, pensavo.
Detesto la società ma ci vivo dentro, sono un suo prodotto, non posso fare a meno di lei.
Per mesi non ho detto niente, ho sperato che finisse, che la gente capisse.
Per mesi ho fatto scorrere il dito verso il basso, passando oltre ai post salviniani, convinta che commentare non servisse a nulla, se non a infilarmi in discussioni inutili.
Farmi dei nemici, magari.
E chi ha voglia di farsi nemici? Chi ha tempo?
Poi io e lui siamo andati a Lisbona.
Il nostro host era un ragazzo portoghese che però parlava perfettamente italiano poiché aveva fatto, anni fa, l'erasmus a Roma. In sala da pranzo c'era una parete che ospitava dozzine di adesivi antifascisti. Una sera, davanti a una birra, il ragazzo ci ha raccontato delle sue lotte, della sua ideologia, della sua coscienza politica. Noi ci capivamo poco e niente: Che Guevara, Fidel Castro, Cuba… manco a parlarne. Però eravamo interessati a conoscere i suoi perché.
Il giorno dopo, io e lui ci siamo confrontati e ciò che ne è emerso è stato che non potevamo continuare così.
Quando, qualche giorno fa, gli ho detto che il Ministro stava per venire a Milano, non c'è stato nemmeno bisogno di chiedersi che cosa fare.
Tempo fa ci siamo detti: se non cambia qualcosa, emigriamo.
Oggi ci diciamo: se non cambia qualcosa, cambiamola noi.

Non so per chi voterò il 26 Maggio.
Non so di chi posso fidarmi, ho ancora in testa quel pensiero che mi sussurra: tanto sono tutti uguali… una volta al potere fanno i comodi loro...
Però una cosa la so: stare a casa a indignarmi in silenzio non ha senso.
Io so come vorrei che fosse il mondo in cui vivo.
E' arrivato il momento di dirlo ad alta voce.

PS
Il mio romanzo non è tra i finalisti. Ve lo dico così, di sfuggita, perché non voglio pensarci più e andare avanti. Scacciare i pensieri infimi che provano a convincermi della mia inadeguatezza come scrittrice, e riempirmi, invece, di quelli che vogliono ricordarmi chi sono e cosa so fare.
D'altronde, NEMMENO DIO PIACE A TUTTI.
Ciao belli.

Questo post è stato originariamente scritto su Swanza blog, da Ade. E' possibile copiarlo parzialmente o interamente e modificarlo, basta che il post originale venga linkato






14 commenti:

  1. Non sei tra i finalisti. E' una grave ingiustizia.
    Come sinpatia per me sei la numero uno.
    Il Che era un cinico che nel dubbio tra buono/cattivo ammazzava. Berlusconi pagava i magistrati e nei processi l'amico Previti si presentava sempre con " 'na borza piena de sordi". Nel Parlamento narciso D'Alema riuscì a risolvere in suo favore il comico conflitto di interessi. Ora il tipetto del Movimento 5 stelle cercherà di farlo fuori. Il 99,99% degli italiani rimpiange il Duce. L'unico a non farlo è Salvini. Perché? Semplice. Lui è il Duce.
    Per consolarti o per spingerti al suicidio ti lascio un abbraccio.

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  2. ora non ti resta che una cosa da fare :dire al K come può leggere il tuo romanzo, ché al momento null'altro interessa al K...

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  3. Stellina del mare...
    Ci sono persone che scelgono (la scuola, il cibo, il libri etc etc etc) e la scelta è un atto politico.
    In un mondo ideale il voto sarebbe l'ultimo di una catena di atti che portano inequivocabilmente lì: la summa degli atti individuali che diventano atto collettivo.
    Poi ci sono quelli che si lasciano scegliere. Punto.
    E siccome la tua testolina è brillante e luminosa non dico altro.
    Un bacino in fronte!

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  4. La scelta è fare quello che ti piace di più. Un atto politico è, invece, il voto.
    Il modo per massimizzare la libertà è massimizzare la scelta. Più scelte le persone hanno, più sono libere ; maggiore è la loro libertà, maggiore sarà il loro benessere.

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  5. Io non voterò perché non mi sento rappresentato da nessuno e quindi non scelgo a caso chi potrebbe sfiorare il mio modo di pensare.

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    1. Daniele, anche quelli che votano non si sentono rappresentati da nessuno. Scelgono chi paga di più.
      Noi o riusciamo a dar vita a un partito politico nel senso etimologico del lemma, cioè arte di amministrare la cosa pubblica, oppure votiamo contro il favorito che generalmente è quello che "puzza" di più.

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  6. Io votero' Salvini. Amen!
    Non mollare presenta il tuo romanzo altrove. Ti auguro il meglio

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  7. Faccio sempre più fatica a trovare motivazione nel voto e nell'impegno politico.
    Però vado a votare, perché non farlo non vuol dire che ti allontani dalla politica, ne prendi le distanza, ma che deleghi ad altri, che invece votano, di scegliere anche per te.

    Sul romanzo, immagino la delusione: non mollare (se vi è una motivazione dietro il rifiuto prova a farne tesoro per migliorare la tua scrittura).
    Hasta la pubblicazione, siempre!

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    1. Il discorso è giusto ma, ridotti alla radice, tolti i vari fronzoli di compiacimento, partiti di cui ci si può anche solo lontanamente fidare non ce ne sono. Molte persone fanno il solito discorso: se tutti fossimo supereroi, allora sarebbe come se non lo fosse nessuno. E molti fanno l'equivalenza: se tutti i partiti non ti rappresentano, allora è come se uno valesse l'altro, quindi vota "il meno peggio". Qualunque sia la logica distorta dietro simili ragionamenti, votare il ""meno peggio"" o votare, spesso solo sulla base di una malriposta e non guadagnata fiducia, trovo sia un comportamento anche meno coerente e sensato del non votare. Detto ciò, se con il mio "non-voto" delego implicitamente ad altri la mia scelta, per il nulla che vale... non so perché, ma sento che, come è stato in passato, e continua a essere, non cambierà comunque un granché. My due cent, da un apolitico romantico nichilista suo malgrado.

      Buonaserata, siore e siore.

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  8. Peccato che il mio partito degli under 70.000 non si sia ancora presentato ufficialmente altrimenti ti suggerivo di dare uno sguardo al suo programma reperibile in rete. Ad ogni modo se proprio ti senti incompleta allora comincia a costruirti il tuo partito e non crucciarti

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  9. @ m brava stronza fascista

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  10. Io voto e voterò sempre che tra il meno peggio e il più peggio c'è tanto peggio in mezzo. Meglio segliere che farlo fare agli altri, penso io che son cretino da tanti anni. 😂😂😂

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Grazie per aver fatto finta di non avere niente di meglio da fare che commentare il mio post... vi lovvo

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