mercoledì 29 maggio 2019

Vado in biblioteca

E prendo raffiche di libri sulla nutrizione, sul mangiar sano, sullo sti cazzi.
E poi mi piazzo sul letto a mangiare patatine.
Quelle schifose, proprio.
Quelle che hanno dentro un mondo di porcate.
Me ne infischio, va bene?

Io sono una contraddizione vivente.

Cosa lo nascondete a fare, tanto lo so che lo siete anche voi.

Il Calvino è andato ed io l'ho scoperto il sedici maggio alle sette e quarantacinque del mattino, mentre bevevo il caffè seduta al tavolo della mia sala/cucina, in pigiama, mezza addormentata.
Ho finto noncuranza, ho detto "pazienza", mi sono messa la tuta e sono andata in palestra.

Ci vado tutte le mattine, ormai.
Ho scoperto che, non solo mi dà energia, ma mi svuota anche di buona parte di cattivi pensieri, rabbia repressa, cose.

Però, poi, la sera, ho pianto.
Ho pianto perché mi sono sentita una fallita, è chiaro.
Non è così difficile farmi sentire così.

Funziona così con noi insicuri.
Al minimo soffio di vento, voliamo in terra che è una meraviglia.
Hai voglia a passare le ore davanti allo specchio o davanti a una tastiera a dire/scrivere le meglio cose su di noi.
Parole parole parole perché così cazzo se lo dico ad alta voce vuoi vedere che, magari, poi, ci credo anch'io?

Ho riletto le prime cinquanta pagine e, da che mi pareva una figata, ora penso "eh sì, certo che l'hanno scartato, fa cagare."

Solito circolo vizioso di merda.

Domani mi passa, eh?
Oggi mangio le patatine.
Poi vado a fare il mio lavoro precario del cazzo che, sì, va bene, mi piace, ma vuoi mettere avere un contratto vero sotto il culo? Eh? Vuoi mettere?

Sì, voglio mettere che fotte sega, ecco cosa voglio mettere.
Io voglio scrivere.
I vostri contratti potete anche ficcarveli lunghi lunghi su per il culo, belli belli arrotolati e occhio a non tagliarvi che la carta, sapete, è infida e quelle sono parti delicate.

Ma dì, non ti piacerebbe lavorare in un supermercato? Eh? Magari all'Esselunga, no? O un bel call center, dai. Tipo quello in cui hai già lavorato, no? Dove dovevi solo rendere accettabile per te stessa il fatto di passare tra le sei e le otto ore al giorno a cercare di inculare la gente, cosa vuoi che sia. C'è chi lo fa per tutta la vita, no?

Giuro che la gente non la sopporto più.
Vorrei essere piena di me il tanto che basta per lasciarmi scivolare tutto addosso.

Poi vado in biblioteca e succede questo.
Consegno i libri e il tizio li guarda, sorride e mi chiede se sto studiando qualcosa.
Tengo a freno la voglia di rispondere "non sono stracazzi tuoi" e mi dico "dai, dillo, dai, una buona volta, osa dire quello che cazzo fai, no?".
Scrivo, dico, allora.
Mi sto documentando, aggiungo.
E non l'avessi fatto mai.
Questo mi attacca un pippone - siamo colleghi, mi dice, e poi mi racconta PER FILO E PER SEGNO la trama della sua ultima fatica, di quella precedente, dei suoi contatti AUTOREVOLI, dell'importanza di trovarsi un agente (per poi pubblicare con una casa editrice a pagamento che, non solo ti chiede soldi, ma poi ti paga con un buono sconto spendibile in libri e due mortadelle coi pistacchi) - che sembra non finire mai e poi ha la brillante idea di concluderlo dicendomi "ma tu lo sai che con la scrittura non si campa, vero?".
CRISTODIDDIO.
Ma ti ho chiesto un'opinione, io?!
Ti ho PER CASO assunto - inconsapevolmente - come mentore/salvatore/consigliere ufficiale?!
Certo, con la scrittura non si potrà mai campare se quello che scrivi FA CAGARE AL CAZZO.
Avrei voluto dirglielo, lo giuro.
Ma ferirlo - peraltro ingiustamente, poiché non ho mai letto una sola riga di ciò che scrive - non avrebbe cambiato nulla.
Certo, che campare con la scrittura sia difficile ai limiti dell'impossibile lo so anch'io, santa pazienza.
Ma mi volete mollare, un po'?
Mi volete lasciare in pace, giacché sto cercando di CREDERE IN ME STESSA pur non essendo particolarmente abile a farlo?

E poi ci siete voi, che mi chiedete di leggere ciò che scrivo ed io che dico sì sì ma dentro di me penso no no perché non lo so se poi vi piace e se non vi piace anzi se poi vi fa proprio schifo io che faccio, eh? Che faccio? No perché io non ce l'ho questa cosa di sentirmi la più figa in terra, non ce l'ho, capito? Non lo so cosa cazzo sia successo durante la meiosi, ma non ce l'ho.
Mi manca, proprio.

Forse oggi sarei più felice se invece di tutta questa intelligenza mi avessero trasmesso un po' di, chessò, ESTROVERSIONE.
Esuberanza, problem solving, proattività, predisposizione al lavoro di gruppo e mannaggiaacristo.

Buona giornata, comunque.

Ah, e mi iscriverò a boxe.
Perché lo so, lo sento, che prima o poi mi tornerà utile saper tirare un gancio come si deve.

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lunedì 20 maggio 2019

Coscienza (politica)

Ieri sera ero a letto che leggevo i programmi elettorali dei vari partiti candidati alle europee e mi sono resa conto - non che non lo sapessi già, per la verità - che il mio rapporto con la politica fa acqua da tutte le parti.
Il primo contatto tra noi - lo ricordo bene - è avvenuto all'incirca vent'anni fa, quando frequentavo la scuola media. La professoressa di italiano e storia ci confidò subito di avere un gatto molto bello e di averlo chiamato Ernesto Costanzo Che Guevara. Nome lungo, per un gatto. Pensai. E pure abbastanza bruttino. Ma alcune mie compagne undicenni, meglio informate di me, in men che non si dica, iniziarono a venire a scuola con queste magliette rosse sulle quali era stampata una faccia nera. L'avevo già vista, sì. Alle bancarelle, in fiera, ne vendevano assai, di quelle magliette. Carine.
Certo, io la scuola me l'ero scelta proprio male male, eh.
Come credo per molti bambini a quell'età, la mia unica preoccupazione fu quella di non separarmi dal mio amichetto del cuore… che, peraltro, mi abbandonò a me stessa neanche a metà del primo anno, cambiando scuola.
I miei compagni di classe erano quasi tutti figli di medici, avvocati, professori e la differenza tra loro e me era palpabile, si percepiva alla prima occhiata.
I professori, poi, la percepivano BENISSIMO.
Quando alzavo la mano - quelle rare volte in cui la mia timidezza estrema me lo concedeva - la professoressa dal gatto importante mi lanciava uno sguardo disinteressato e passava oltre, allargando il sorriso quando a parlare erano le sue pupille dalle maglie rosso fuoco.
Imparai che a nessuno importava di ciò che avevo da dire, e passai oltre anch'io.
A casa mia nessuno leggeva, nessuno parlava con me di ciò che succedeva nel mondo, nessuno si domandava cosa mi passasse per la testa.
O forse sì, chissà. Comunque, a me, non l'hanno chiesto mai.
La mia adolescenza è un buco nero in cui rare volte ho voglia di infilare la testa per vedere se, magari, riesco a trovare qualcosa.
Sono sempre stata un'avida lettrice di romanzi, brava a scrivere, meno a parlare.
La scuola l'ho lasciata a quindici anni perché, anche lì, avevo bisogno di passare oltre.
Lavorare, rendermi indipendente, fuggire dalla periferia, sopravvivere.
Ho ripescato un vecchio diario e ci ho trovato dentro un mio scritto su Dio che terminava con questa frase: forse Berlusconi si è comprato pure Dio.
Ero arrabbiata, allora, e quel sentimento permeava tutto ciò che facevo, ma non ricordo quei pensieri, quelle associazioni mentali. Probabilmente quella frase era nata da un sentito dire, e niente più.
C'è stato un periodo in cui bisognava proprio odiare Berlusconi e - forse, chissà - lo facevo anch'io.
Lasciai un fidanzatino, all'epoca, perché scoprii che aveva appesa in camera la bandiera nazista.
Non sapevo niente, niente.
Però, evidentemente, qualche certezza dovevo averla.
Il mio mondo faceva schifo e non vedevo vie d'uscita percorribili.
Credo che lì sia nata in me la convinzione che, se tutto va male, deve essere colpa della politica.
Tanto sono tutti uguali, mi aveva detto qualcuno.
A votare non ci sono andata mai.
A scuola ci sono tornata a venticinque anni.
Ho frequentato dei corsi serali comunali che mi hanno preparata per dare gli esami da privatista.
Due anni in uno, per risparmiare tempo.
Se fossi stata brava, in tre anni mi sarei diplomata.
Sono stata brava.
Il quinto anno sono passata a una scuola serale statale, per diplomarmi da interna.
Ci trattavano come delle merde, per lo più.
Eravamo scarti della società, poveracci, gente che non era stata in grado di finire la scuola quando avrebbe dovuto, capre ignoranti.
Alcuni professori erano palesemente inadeguati all'insegnamento, gente che veniva a scuola a scaldare la sedia tantochissenefregadiquellilì.
Il mio professore di italiano e storia era - ed è, presumibilmente - un nazifascista.
Tra le altre cose, gli piaceva definire il processo di Norimberga un processo spettacolarizzato.
Mi sono diplomata con 93/100.
Sarebbero stati 100/100 se non avessi perso un anno di crediti, facendo due anni in uno.
Eppure sono uscita da lì che del mondo di oggi sapevo ancora poco e niente.
E ciò che sapevo non arrivava dalla scuola, ma dal fatto che avessi iniziato a informarmi da sola.
Ciò che mi è rimasto, della scuola, non è legato alla miriade di nozioni che sono stata obbligata a imparare a memoria, bensì a ciò che è stato affrontare la scuola, per me.
Ed è un po' triste, fa anche un po' incazzare, se ci penso.
Eppure è così: la scuola mi ha insegnato che se ho qualcosa da dire, è bene che io la dica, anche se mi sembra che nessuno mi stia a sentire, anche se dirla mi metterà contro un sacco di persone. La scuola mi ha insegnato a riconoscere la mia forza, la forza delle mie idee, la forza delle mie parole. La scuola mi ha dato sicurezza e fiducia in me stessa. E non perché, come dovrebbe essere, sono stata guidata da persone che mi hanno aiutata a far nascere in me queste consapevolezze, ma perché ho DOVUTO imparare queste cose, altrimenti nessuno avrebbe parlato per me, nessuno mi avrebbe aiutata ad uscire da lì con un diploma in mano. Ed io volevo quello, il diploma, la prova - per me stessa - che non ero davvero uno scarto della società, un'inetta.
Forse è stato quello il momento in cui la politica è entrata, almeno un po', nella mia vita.
Poi è arrivato Salvini.
Per mesi ho provato disgusto, ma non l'ho detto mai.
Io sono apolitica, pensavo.
Detesto la società ma ci vivo dentro, sono un suo prodotto, non posso fare a meno di lei.
Per mesi non ho detto niente, ho sperato che finisse, che la gente capisse.
Per mesi ho fatto scorrere il dito verso il basso, passando oltre ai post salviniani, convinta che commentare non servisse a nulla, se non a infilarmi in discussioni inutili.
Farmi dei nemici, magari.
E chi ha voglia di farsi nemici? Chi ha tempo?
Poi io e lui siamo andati a Lisbona.
Il nostro host era un ragazzo portoghese che però parlava perfettamente italiano poiché aveva fatto, anni fa, l'erasmus a Roma. In sala da pranzo c'era una parete che ospitava dozzine di adesivi antifascisti. Una sera, davanti a una birra, il ragazzo ci ha raccontato delle sue lotte, della sua ideologia, della sua coscienza politica. Noi ci capivamo poco e niente: Che Guevara, Fidel Castro, Cuba… manco a parlarne. Però eravamo interessati a conoscere i suoi perché.
Il giorno dopo, io e lui ci siamo confrontati e ciò che ne è emerso è stato che non potevamo continuare così.
Quando, qualche giorno fa, gli ho detto che il Ministro stava per venire a Milano, non c'è stato nemmeno bisogno di chiedersi che cosa fare.
Tempo fa ci siamo detti: se non cambia qualcosa, emigriamo.
Oggi ci diciamo: se non cambia qualcosa, cambiamola noi.

Non so per chi voterò il 26 Maggio.
Non so di chi posso fidarmi, ho ancora in testa quel pensiero che mi sussurra: tanto sono tutti uguali… una volta al potere fanno i comodi loro...
Però una cosa la so: stare a casa a indignarmi in silenzio non ha senso.
Io so come vorrei che fosse il mondo in cui vivo.
E' arrivato il momento di dirlo ad alta voce.

PS
Il mio romanzo non è tra i finalisti. Ve lo dico così, di sfuggita, perché non voglio pensarci più e andare avanti. Scacciare i pensieri infimi che provano a convincermi della mia inadeguatezza come scrittrice, e riempirmi, invece, di quelli che vogliono ricordarmi chi sono e cosa so fare.
D'altronde, NEMMENO DIO PIACE A TUTTI.
Ciao belli.

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lunedì 13 maggio 2019

Five days to go

Eh sì, miei adorati.
Tra cinque giorni succederà.
Il momento sta per giungere.
L'attesa sta per terminare.
Vivo in un'allegra bolla di ansia gioconda.
Meno cinque giorni alla pubblicazione dei dieci nomi tra i quali, ovviamente, cerco di figurarmi anch'io.
Mi ci trovo bene, là in mezzo. Emozionata e felice, persino stretta così, in quell'interlinea decisamente poco spazioso.
Si respira aria di festa, lacrime dolci, sorrisi grandissimi.
Immagina, credici, vivilo.
Rendi materia i tuoi sogni.

"Se gli altri non ridono dei tuoi obiettivi, vuol dire che non sei abbastanza ambizioso."

Foglietti gialli con gli angoli piegati dal tempo, appesi qua e là.
Sì, sono stata pronta ad ampliare la mia visione di ciò che posso fare, e l'ho fatto.
Lo faccio ogni giorno, tranne quando ho il pre-ciclo. Perché lì, mi pare ovvio, penso solo a mangiare.
Che ridano di me, poveri stolti. Non sanno che, ahiloro, mi stanno facendo solo un grosso favore.
Che mi vedano come un'illusa, che si diano il gomito, sogghignando, chiedendosi quando crescerò, quando comincerò a vivere la vita vera.
La vita. Vera.
La vita vera è, per me, quella vita in cui sei felice perché fai cose che ti rendono felice.
I clichés lasciamoli a chi ha la fantasia intirizzita, a furia di correre su una strada che qualcun altro ha pensato per lui.

Leggo tanto e mi piace.
A volte penso che vorrei essere più costante, nel mio parlarvi di ciò che leggo.
Ma non è cosa per me, ormai mi è evidente.
Quando ho qualcosa da dire su un libro, lo faccio. Senza sforzi.
Se dovessi impormi di recensirli tutti, di esprimere un'opinione, di catalogarli, di stellinarli, mi annoierei a morte.
Spesso sui libri non ho niente da dire.
Sono miei, punto.
Li ho amati, li ho odiati, mi hanno insegnato qualcosa.
Mi capita, però, di volerne parlare, a caldo.
E quelli sono i momenti in cui, fossi una persona diligente, dovrei prendere nota di quei pensieri fuggevoli e poi buttarli giù, con calma.
Ma non lo faccio mai.
Per esempio, ricordo che "Cattiva" di Rossella Milone, mi ha lasciato delle sensazioni addosso. Sensazioni sgradevoli, per lo più. E non perché il libro facesse cagare, anzi. Ma perché era crudo, reale, vivido, pauroso.
Mi piacerebbe far parte di un gruppo di gente psicotica come me, tipo. Ritrovarci una volta a settimana, una volta ogni due, con un libro in mano, davanti a una torta, una tazza di caffè. E parlare, parlare, parlare. Parlare di libri.
Ma non in maniera intellettualoide, ecco. Conversazioni fluide, scorrevoli, sincere. Non mucchi di parole buttate lì a mo' di ostentazione, esaltazione di cultura, fammi vedere se ce l'ho più grosso io o se ce l'hai più grosso tu ma, dai, cazzo, è evidente che è più grosso il mio, no? Vogliamo davvero discuterne?

Spengo il pc e mi sento brava.
Ciò che sto facendo è fantastico, meraviglioso, appagante.
So che, quando sarà finito, sarà stupendo, la mia chicca, il mio bambino adorato.
All'inizio temerò per lui, lo vorrò proteggere, faticherò a separarmene.
Poi arriverà il momento in cui sarò pronta a gettarlo in pasto al mondo, lasciarlo vivere, permettergli di crescere, affrontando le difficoltà ed uscendone da solo.
E me ne dimenticherò.
Lo porrò in un angolo del mio cuore. Un luogo buio, silenzioso, dolce.
E mi darò al prossimo.

Odio la faccia di quell'uomo. La vedo ovunque, mi snerva. Quel suo sorriso stupido, finto, piacione. Il suo tono di voce fastidioso, quelle parole ripetute, come se stesse parlando a un branco di scemi.
Sì, questo è ciò che siamo tutti, per lui.
Un mucchio di pecoroni, manovrabili, innocui e allo stesso tempo potenti.
Come una mandria di bufali che corre nel vento.
Che schifo, il mio paese.
A volte lo dico, ci penso.
Ma poi so che non fa davvero così schifo, no.
C'è ancora gente decente, da qualche parte.
Sono silenziosi, come me.
Forse è arrivato il momento di smetterla, però, con il silenzio.
Con la muta indignazione.
Con la speranza che prima o poi le persone aprano gli occhi.

Ho letto "Il figlio del secolo" di Antonio Scurati. Un librone di circa ottocento pagine che racconta, in modo più o meno romanzato, la storia di quell'uomo a cui poveri stolti ignoranti ancora oggi inneggiano. Una storia che conoscevo già, certo, ma che mi piace rileggere da diverse angolazioni.
Sono stata male, malissimo.
Il silenzio di quell'aula, era come se ce l'avessi io, nel cuore.
Il silenzio.
Se qualcuno avesse rotto quel silenzio, come sarebbe andata?
Non so, nessuno può sapere.

E adesso?
Davvero si può restare muti, a bocca aperta, con la forchetta piena di spaghetti ferma a mezz'aria per qualche secondo, e poi nulla?
Non lo so, non lo so.
Ma ci penserò, ci sto già pensando.

Piangevo, ieri sera.
Ho ascoltato l'intervento di un medico, Pietro Bartolo, all'Università di Modena.
Un'ora e dodici minuti di atrocità.

Non lo so se la gente davvero non sa queste cose o se, forse, è semplicemente più comodo fingere di non saperle.
Fidarsi di tutto quel che si sente, si vede, si legge.
Io non mi fido, mai.
E non voglio, non posso più restare in silenzio.

Cosa posso fare, però?
Non lo so, non lo so.
Il senso di impotenza mi attanaglia.
Ma non gliela darò vinta.
Non lo faccio mai.

Io odio perdere.
Ma questo voi già lo sapete, no?

Ciao belli.
Grazie per avermi cercata, pensata, desiderata.
Vi abbraccio.

Questo post è stato originariamente scritto su Swanza blog, da Ade. E' possibile copiarlo parzialmente o interamente e modificarlo, basta che il post originale venga linkato
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